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Collecapretta “Le Cese” 2018

Le Cese 2018 – Collecapretta

Igt Umbria

Ci sono i vini del cuore e Le Cese di Collecapretta per me è uno di questi. Lo è per vari motivi, tra i quali non per ultimo il fatto di aver vissuto in Umbria per 12 anni ed essermi avvicinato al mondo dei vini naturali-artigianali proprio grazie alle bottiglie di quest’azienda, situata sulle colline intorno a Spoleto. La famiglia Mattioli lavora da molti anni in completa attenzione alla naturalità dei processi, sia in vigna che in cantina. Prima ancora che si parlasse di vino naturale.

Le Cese è un grande Sangiovese in purezza che non vede legno e riesce a competere con moltissimi grandi espressioni toscane dello stesso vitigno. Alla cieca, a par mio, sarebbe difficile distinguerlo da molti sangiovesi di rango, soprattutto della zona di Montalcino (ovviamente parlo dei più buoni ed ispirati ai principi dell’artigianalità).

Rosso rubino con riflessi granato, naso diretto, schietto e verace di frutti rossi, prugna, ciliegia selvatica, cuoio, terra, sottobosco. Il palato è coerente, saporito e confortante, senza virare mai in pesantezze, ma mantenendo invece una sua proverbiale e rustica eleganza. Tannini ben integrati, morbidi, calore e densità si sviluppano in armonia, ottima acidità e sapidità, soprattutto nel finale, che chiude il sorso in equilibrio tra materia e stile.

Personalmente, come spesso mi capita con il sangiovese, preferisco la versione base alle riserve e quindi consiglio di iniziare proprio da ” Le Cese” che in questa versione 2018 appare in grandissima forma espressiva, tra le migliori bevute fino ad ora.

Da segnalare che l’Azienda produce anche due eccellenti olio extravergine, oltre ad un’altra decina di etichette tra bianchi rossi e rosati.

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Chambolle-Musigny “Les Charmes” Premier Cru 1991 – Domaine Amiot-Servelle

Chambolle-Musigny “Les Charmes” Premier Cru 1991 – Domaine Amiot-Servelle

Non posso che scrivere un elogio al tempo che scorre ed alla pazienza di aspettarlo. Ma anche alla necessaria fortuna, all’occasione ed alla scommessa. Ho acquistato questo Les Charmes 1991 ad un asta di vini online, ambiente al quale ammetto di essere ben poco avvezzo e tanto meno appassionato. Confesso anche di essermi appoggiato ad Armando Castagno ed alla sua “bibbia” sulla Borgogna (più corretto dire sulle sue vigne) dove parla del Climat “Les Charmes” come uno dei luoghi che hanno contribuito maggiormente alla costruzione del mito di Chambolle come massima espressione di finezza e complessità. Sempre Castagno lo definisce un Premier Cru che nelle migliori annate rivaleggia, senza timore reverenziale, nei confronti di molti blasonati Gran Cru della Côte d’Or, capace di invecchiare 20 anni e più senza scomporsi. L’annata 1991 si configura come ottima e molto equilibrata, messa forse in ombra dalla monumentale 1990, considerata tra le migliori annate del secolo in Borgogna. Il Domaine Amiot-Servelle, attivo da circa un secolo, si è convertito nel 2003 alle pratiche biologiche certificate in vigna e persegue un approccio poco interventista in cantina (lieviti autoctoni, filtrazioni minime o del tutto assenti, piccole dosi di solforosa all’imbottigliamento). Dopo un’estate di riposo in cantina ho deciso di aprirla senza particolari motivi, per una cena piuttosto semplice, e nella speranza che il vino stesso fosse l’occasione ed il pretesto per un viatico speciale. Dopo tre-quattro ore dall’apertura, il vino si è prentato in un bella veste rosso rubino con riflessi granato, ancora vivo e luminoso. Al naso contratto e reticente, piccoli frutti rossi sottospirito, cuoio, leggero accento boisé. Al palato invece appariva un vino scarno, privato per sottrazione nel tempo di tutti gli elementi vitali e costituenti. Lasciando invece spazio ad una acidità netta, tagliente ed invasiva, non certo segno di gioventù. Deluso, disilluso, e forse aiutato da un pizzico di lungimiranza inconscia, ho deciso di archiviare la bottiglia come interlocutoria, ed ho aperto un altro vino per la serata, cercando di andare sul sicuro. Il giorno seguente, a pranzo, si è palesata ed incarnata nel calice la mitica “magia della Borgogna”. Il vino aperto 16 ore prima era completamente trasformato, rivoluzionato, risorto. Dalla sua possibile e prematuramente “morte” dichiarata, questo Chambolle-Musigny si palesava come il miglior Borgogna mai assaggiato fino ad oggi. Al naso una complessità estrema, stratificata ed intersecata al millimetro, in un gioco di sentori di sottobosco (tra cui netto il tartufo bianco, i funghi freschi, l’humus), piccoli frutti rossi maturi, spezie, goudron, torrefazione. Al palato il velluto di Chambolle si è manifestato in tutta la sua eleganza. Impatto morbido e suadente, tannini sferici di rara eleganza, sorso coerente, fluido, delicato ma non esile, ben sorretto ancora da una certa freschezza, che con garbo ed equilibrio guidava la dinamica del sorso verso un finale minerale e sapido molto lungo e gratificante. Un vino emozionante, di rara eleganza, che mi ha regalato un esempio archetipico di cosa possa esprimere un grandissimo Pinot Noir nella Côte de Nuits, dopo 30 anni. Ma come dicevo in apertura questo è anche un elogio alla lentezza, alla pazienza di saper aspettare e rispettare i tempi dell’altro. Al tempo che scorre inesorabile e in alcuni casi, come per questo magnifico vino, con una fiducia incrollabile.

Carte des vins de Chambolle-Musigny et De Morey-St-Denis

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Riesling Silberberg de Rorschwihr – Rolly Gassmann

Riesling Silberberg de Rorschwihr – Rolly Gassmann

Come si parla di un vino che non incontra i nostri gusti? Possiamo definire buono un vino ben fatto e di indubbia qualità, che però soggettivamente, ed onestamente, non ci piace? Difficile dare una risposta semplice ad un quesito complesso. Difficile rispondere in maniera univoca, almeno per me. Quando scriviamo intorno ad un vino, esprimiamo sempre almeno in parte, una forma di “giudizio”, che non vuole essere una sentenza, ma certamente non possiamo sfuggire completamente dall’esercizio di una valutazione soggettiva e personale. Scrivere è sovente raccontare del proprio incontro con l’altro, ed anche scrivere di vino (o del vino o intorno al vino) è la storia di un incontro ermeneutico e fenomenologico con un elemento a suo modo vivente.

I dubbi ed i quesiti di cui sopra, mi sono soggiunti dopo aver bevuto questo Riesling alsaziano in purezza, proveniente dalla storica Cantina Rolly Gassman situata a nord di Colmar, al confine tra il basso e l’alto Reno. Vinificazioni parcellari dal lieu-dit Silberg de Rorschwihr in tini d’acciaio, maturazione in botte grande e lungo affinamento in bottiglia.

Il suo giallo paglierino brillante sprigiona potenti note floreali, pesca nettarina e albicocca matura, frutta esotica, note minerali di pietra focaia e tipici sentori di idrocarburi. Al palato l’ingresso è spietatamente morbido, succoso, quasi un nettare, con una prevalenza dolce che avvolge il palato in maniera peculiare, dirompente. A primo acchito sembra un vino da dolce, ma poi arriva fortunatamente una coda acida e salina che ci ricorda che si tratta comunque di un Riesling Renano di 13 anni, ufficialmente secco. Buona la coerenza gusto-olfattiva, ma il sorso è penalizzato a mio avviso dal netto squilibrio morbidezza-durezza, che rendono poco fluido ed invitante il sorso.

Credo di aver incontrato questo Riesling nel suo momento di massimo espressione, ma partendo dal presupposto che non amo particolarmente il vitigno (fatta eccezione dei grandi Riesling tedeschi!), il problema rimane a mio avviso l’estrema dolcezza al palato, che ne fa un vino poco in equilibrio e difficilmente adatto al pasto. Il produttore consiglia di abbinarlo a frutti di mare, crostacei e salmone, ma la mia esperienza con quest’ultimo è stata decisamente contrastante per non dire “cozzante”. Forse meglio con formaggi stagionati, erborinati, terrine e paté, fois gras. Forse ancora meglio da solo.

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Barbaresco 2018 – Giuseppe Cortese

Barbaresco 2018 – Giuseppe Cortese

Il sig. Giuseppe Cortese è un vignaiolo cortese di nome e di fatto. Sono stato in visita da lui 5/6 anni addietro e rimasi decisamente colpito dalla sua semplicità e disponibilità nell’accogliermi presso la sua cantina senza il minimo preavviso (dove, oltre ad assaggiare tutti i suoi bei vini, ebbi anche la fortuna di acquistare alcune annate vecchie del suo Cru Rabajà a prezzi all’epoca veramente onesti e che oggi risulterebbero irrisori).

Anche il suo Barbaresco 2018 potrebbe essere definito cortese, perché è un vino buonissimo, accogliente e di grande equilibrio. Ma “l’etichetta” di cortese rischia però di stargli stretta, perché è anche un vino corroborante, dal sorso dinamico e vivo. Un vino che rappresenta a mio avviso un grande esempio di classicità nell’interpretazione del Barbaresco, territoriale, schietto ed elegante. Le uve sono avviate alla fermentazione in serbatoi d’acciaio con fermentazione sulle bucce per circa un mese. Matura poi 18 mesi in botti grandi e completa l’affinamento con almeno 6 mesi in bottiglia.

Nel calice si presenta non troppo carico, di colore rosso granato luminoso, riflessi rubino e netto contorno aranciato. Al naso piccoli frutti a bacca rossa, ciliegia sottospirito, violetta, caramella al rabarbaro, radice di liquirizia, leggermente mentolato. Al palato si concede subito senza tante ritrosìe, giustamente morbido, avvolgente e caldo. Tannino di trama fine e ben cesellato, mai irruento; il sorso progredisce succoso, con regolarità e piacevolezza, supportato da argini di freschezza e mineralità che donano equilibrio al sorso e grande bevibilità. Gestione dell’alcool (14.5°) magistrale, finale fresco, leggermente sapido e di buona persistenza.

Questo Barbaresco 2018 di Giuseppe Cortese è a mio avviso in uno stato di grazia, potrebbe certamente aspettare ancora in cantina alcuni anni ed evolvere in maniera interessante. Ma è buonissimo ora, e se ne avessi ancora una bottiglia in cantina non esiterei a stapparlo ancora entro la fine dell’anno. Vino di grande piacevolezza ed immediatezza che danza tra le linee di gioco con equilibrio, prontezza, eleganza e concretezza. Ottimo anche il rapporto qualità-prezzo-piacere e sugli abbinamenti ci si può solo sbizzarrire.

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Serragghia 2018 – Giotto Bini

Serragghia 2018 – Giotto Bini

Terre Siciliane IGP

Zibibbo Secco

L’aspettiva spesso viene tradita dall’attesa. O forse semplicemente l’immaginazione e le parole su di un vino talvolta non trovano corrispondenza nel calice. In questo caso, purtroppo, si tratta di un discostamento grossolano, fallace.

Il vino è uno Zibibbo in purezza vinificato secco, un nome importante, quasi un “mito” nel suo genere. Proveniente dai terreni terrazzati di Pantelleria, su suoli vulcanici e sabbiosi ed esposizione a sud. Macerazione sulle bucce e fermentazione spontanea in anfora a cui seguono, dopo la svinatura, almeno sette mesi di maturazione nei medesimi recipienti. Zero solforosa aggiunta.

Da un paio di anni aspettavo di aprire questa bottiglia e ieri mi sono sentito che era arrivato il momento giusto.

Il colore è un bel giallo paglierino non troppo carico, limpido e pulito. Al naso un grande tripudio di aromi varietali che spaziano dall’albicocca e la pesca disidratate, al dattero, al fico d’india maturo, ad un bel ventaglio di frutta tropicale.

Tutto sembra preludere ad un grande bevuta, ma il sorso non trova una goccia di corrispondenza gusto-olfattiva, poichè putroppo regna sovrana (e tiranna) una acetica impetuosa, la quale cancella ogni altra possibilità di piacevolezza al sorso.

Non parliamo di una leggera volatile (in genere presente maggiormente nell’olfattivo e nel retro-olfattivo) “tipica” di alcuni (e sottolineo alcuni) vini naturali-artigianali (in particolare a zero solforosa aggiunta) a cui sfugge un pò la mano del processo di fermentazione, ma che dopo un pò di areazione svanisce o che nel complesso di un vino armonico, dinamico e ben fatto può anche essere tollerata, se non addirittura gradita da alcuni.

Putroppo in questo caso parliamo di una acidità acetica insostenibile al sorso e generalmente tipica di un problema nella vinificazione.

Può capitare, ma è un peccato, perché oltre alla scarsissima reperibilità (8000 bottiglie) il vino è molto costoso (non cito mai i prezzi, ma in questo caso mi sento di dover sottolineare che si tratta di un vino bianco italiano da 70 euro) e putroppo non credo che avrò il coraggio di concedergli una seconda possibilità.

Peccato anche perché l’abbinamento con un sontuoso fegato di vitello alla veneziana, sarebbe stato potenzialmente un bell’incontro.

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Langhe Nebbiolo 2013 Giuseppe Rinaldi

Langhe Doc Nebbiolo 2013
Giuseppe Rinaldi

Giuseppe Rinaldi non ha bisogno certamente di presentazioni. I suoi vini lo fanno in maniera autonoma ben prima di essere stappati. Scelgo questa Pasqua 2022 per aprire il suo Nebbiolo 2013 che conservavo in cantina da 5/6 anni rimandando frequentemente la sua apertura, come spesso mi capita per le bottiglie importanti e che custodisco con religiosa aspettativa.

Rosso granato brillante con riflessi rubino, sprigiona al naso tutte le caratteristiche che ti aspetti dal nebbiolo nel suo territorio di elezione. Sugli scudi la rosa, una leggera violetta, prugna e ciliegia selvatica e poi un incedere discreto, ma ben presente, di sentori terziari, come pellame e liquirizia, sottobosco, note balsamiche e mentolate.

Il sorso attacca con una sensazione che definire fresca è decisamente riduttivo. La componente acida è proverbiale, attraversa e sorregge il sorso dall’inizio alla fine con una costante spinta propulsiva ed energica. Caldo, ma non eccessivamente (dissimulando un alcolicità elevata, gestita in maniera magistrale), porta in dote tannini di razza che hanno davanti a loro ancora del tempo per raggiungere la piena forma e maturazione. Retrogusto che riporta in superficie il frutto croccante e chiude molto lungo con leggere note speziate e di liquirizia amara.

Corpo atletico e definito come quello di un quattrocentrista olimpico. Fine, elegante e complesso senza risultare complicato, dotato di una beva straordinariamente efficace, gratificante e dissetante. Se qualcuno lo ha in cantina, mi sento di dire che può assecondare la propria eventuale resistenza all’apertura per almeno due-tre anni, forse anche più.

Nebbiolo d’eccezione ed eccellenza, che regala emozione, ma anche spiazzamento, sopratutto per coloro che non sono avvezzi ai modi dei vini del “Citrico”. Parliamo di un vino concepito per essere compagno di un pasto adeguato, e consiglio di farlo se si vuole evitare di sprecare e mal interpretarne le sue caratteristiche e qualità proverbiali. Mi immagino infatti il volto spiazzato di un qualche avventore “parkerizzato”, che sorseggia questo vino alle 18.00 in un wine-Bar, rigorosamente a bocca pulita, come fosse un Cabernet della Napa Valley.

È indubbiamente una grande bevuta, ed il prezzo é proporzionato al blasone, alla scarsa reperibilità e all’ottima annata. Forse non alla portata di tutti, anche dal punto di vista del rapporto aspettative/comprensione/gratificazione. Con il classico agnello pasquale al forno accompagnato da patate è stato un bel matrimonio.

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Champagne Laurent-Perrier Brut Millésimé 2008

Raramente scelgo di acquistare Champagne di grandi maison, al di fuori di sporadici e misurati incontri con i “mostri sacri” delle bollicine. Questo Brut Millésimé 2008 di Laurent Perrier è stata quindi un ancor più rara eccezione nel panorama delle mie abituali scelte effervescenti. La rivelazione non è stata tanto il fatto che il vino fosse buono (in realtà è buonissimo), quanto che esso potesse competere con champagne di prezzo e categoria decisamente più elevati.

Pinot Noir e Chardonnay in parti uguali per questa annata di rara eccellenza, una delle migliore degli ultimi cinquanta anni, forse anche più.

Giallo paglierino brillante, perlage finissimo, ricco e di grande persistenza. Al naso esprime un carattere solido e seduttivo, molto complesso, con elementi minerali e gessosi, agrumi e fiori bianchi. Il contatto con la bocca è di seta, le bollicine sembrano carezzare letteralmente il cavo orale, senza mai eccedere nè ritrarsi. Grande vivacità, persistenza e profondità, le quali ritornano con coerenza sul frutto maturo (in particolare limone e scorza di arancio), con un’acidità vivace e ponderata. Finale di grande spessore, che regala una bellissma lunghezza minerale e salina.

Champagne eccellente, di categoria superiore, che ha nelle corde dell’equilibrio, dell’armonia e della finezza i suoi migliori pregi, senza però risultare mai banale o scontato. Come detto è un vino che a mio avviso, almeno in questa eccezionale annata, può competere con “cugini” di livello superiore, e per questo non ho dubbi nel dire che rappresenta un buon rapporto qualità prezzo all’interno della propria tipologia.

Vino da grande pasto, che non teme il confronto con pietanze anche elaborate. Le prospettive di evoluzione sono ancora decisamente interessanti.

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Ribera del Duero Riserva 2017 – Pago de los Capellanes

Ribera del Duero Riserva 2017

Pago de los Capellanes

Ultimamente mi capita con maggiore frequenza di ricredermi rispetto alle mie convinzioni scoprendole talvolta pregiudizi. E quando questo accade intorno al vino accolgo la cosa con grande piacere, allargando oltremodo la mia mappatura enoica. Questo Ribeira del Duero Riserva, di cui mi accingo a scrivere, ne è un’esempio lampante. Cantina grande e relativamente giovane (1996), moderna e modernista, situata sulle sponde spagnole del Duero. Tempranillo in purezza su suoli argillo calcarei e vecchie vigne di circa 80 anni, maturazione in barrique nuove a tostatura media per 14 mesi e a seguire 22 mesi di affinamento in bottiglia.

Il vino è molto buono, fine ed elegante, dotato di grande equilibrio ed energia. Grande impatto olfattivo, con frutti di bosco, ciliegia e prugna, spezie dolci, legno, cacao e cuoio. Il sorso è ricco e generoso, morbido, materico e caldo, con tannini di grande finezza ed attraversato da una bella acidità che da slancio al sorso. I 15.5° alcoolici sono magistralmente gestiti ed integrati, centro bocca gratificato dal frutto maturo che ritorna coerentemente al palato. Ottima persistenza e finale molto lungo, sapido e speziato.

Questo tempranillo è un vino importante, ricco ed elegante al tempo stesso, con un sorso che non stanca, grazie anche ad un legno presente (sopratutto al naso) ma non invadente. Forse un pò giovane, e credo che con qualche anno sulle spalle migliorerà, acquistando maggiore profondità. Qualcuno potrebbe definirlo con facilità “piacione”, ma se questi sono i vini di facile piacere, ben vengano anche lor signori. Giusto rapporto qualità-prezzo che lo pone a livello di molti vini italiani e francesi di medio-alto livello ed ottima qualità.

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LOVE and PIF 2017 – Aligotè – Domaine Recrue des sense

LOVE and PIF 2017 – Aligotè – Domaine Recrue des sense

Yann Duriex è un giovane vignaiolo che dal 2010 (dopo aver lavorato a lungo presso il mitico Domaine Prieure Roch) si è messo in proprio nella Hautes-Côtes-de-Nuits, inizialmente con soli due ettare e mezzo (oggi nove) e recuperando vecchie vigne di famiglia, oggi affiancate da parcelle in affitto. Negli ultimi anni è diventato un “vigneron-star” a livello mondiale ed i suoi vini, assolutamente di impronta naturale-artigianale, sono ricercatissimi e molto costosi. Ha scelto, in maniera piuttosto coraggiosa, di rinunciare alla denominazione locale e nelle sue etichette (tutte in stile iper-moderno/fumettistico) non compare nessun riferimento enografico alla Borgogna. Questa scelta non è certamente una mancanza di riconoscenza nei confronti di un territorio che conosce profondamente, quanto una scommessa (a quanto pare vinta) sulle proprie capacità e sulla propria personale idea di fare vino.

Emozionare con un Aligotè da 11% alcolici non è veramente cosa facile. Eppure LOVE and PIF ci riesce in maniera spiazzante. Il vino è delizioso e si posiziona due/tre spanne sopra ogni altro altro Aligoté assaggiato fino ad oggi. Il suo colore giallo paglierino archetipico regala al naso intensi e ben definiti sentori agrumati (in particolare limone e bergamotto), fiori bianchi e miele di acacia. Al palato sprigiona sferzante energia, grande freschezza (lontana dalle iper-acidità di molti Aligotè), sapidità e mineralità. È un vino molto gastronomico (ma non un “glou-glou”) e di corpo è abbastanza fine, senza per questo essere privo di personalità e sostanza. Al palato la materia è presente, il fluido e sempre teso, vivo e dotato di una sua profondità ed ampiezza.

Bevendo questo vino ho avuto la sensazione di trovarmi al cospetto di un’altra categoria. Forse di un fuori classe. Si avverte, come spiazzante, un interrogativo rispetto alle possibilità medie del vitigno. Ci si chiede ad un certo punto: “Ma sarà un Aligotè in purezza?” (lo è). È un vino che a me è piaciuto moltissimo, che avevo preso come entry level (tutt’altro che economico), intimorito dai prezzi degli altri suoi vini (Pinot Noir e Chardonnay). Ma da oggi l’ho appuntato sulla lista dei desideri enoici per il 2022.

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The Schubert Theorem 2016 – Standish Winery- Barossa Valley

The Schubert Theorem 2016 – Standish Winery- Barossa Valley

La bottiglia si presenta pesantissima e completamente nera (compresa etichetta, controetichetta e ceralacca). Appare solo in controluce l’incisione di una formula matematica ed il nome The Schubert Theorem. Questa presentazione dall’aspetto enigmatico e fascinoso, ha sortito in me un “effetto aspettativa” decisamente elevato. Il quale è stato ampiamente superato, oserei dire surclassato, dall’esperienza sensoriale di questo Syrah in purezza delle Barossa Valley.

Il vino si presenta con un compatto ed assolutamente impenetrabile rosso porpora scuro, inchiostrato e denso. Il naso è un esplosione di complessità ed intensità che è possibile avvertire nitidamente anche a 20 cm dal calice. Piccoli frutti rossi e neri in composta (in particolare mirtillo e mora), pepe nero, radice di liquerizia, tabacco, cioccolato, torrefazione, inchiostro.

In bocca il vino è dirompente. La concentrazione è oltre i livelli massimi sperimentati, viscosa, totalizzante e suadente. Caldo e morbido prende spazio nel palato in maniera inaspettatamente dinamica e fluente. L’alcool è eccezionalmente gestito ed integrato a tannini di velluto, definitissimi, multidimensionali. Non tardano ad arrivare, in soccorso alla dinamica del sorso, una bellissima acidità ed una buona sapidità, che regalano al vino bevibilità e scioltezza, sopratutto in relazione alla tipologia di vino di cui stiamo parlando. Persistenza importante e finale lunghissimo, con un ritorno coerente sul frutto scuro (questa volta fresco) e sulla spezia dolce.

Questo Syrah in purezza (proveniente da uno dei migliori produttori del paese, all’interno della zona più vocata in assoluto) credo sia assolutamente sconosciuto e pressoché introvabile in Italia.

Io l’ho ricevuto in regalo, ed è stata un esperienza entusiasmante. Premetto che non sono un appassionato della tipologia dei vini iper-concetrati e “muscolosi”, né del vitigno (fatta ovvia eccezione dei grandi Syrah del Rodano). Inoltre, prima di questo vino, la mia esperienza con i vini australiani era relegata a qualche bottiglia di basso profilo, facilmente reperibile nella GDO. Questo per dire che una certa dose di preconcetto era presente in me. Ed è stata spazzata via al primo sorso.

La qualità del vino è assolutamente eccezionale, un vino di cui è difficile non infatuarsi quasi in tempo reale e tenerlo a lungo impresso nella memoria sensoriale. Un vino seducente e sensuale, ma mai semplice o monocorde, anzi direi stratificato e vivissimo. Certamente non è un vino quotidiano, né per tipologia e caratteristiche, né tanto meno per il prezzo, decisamente elevato. È però un esperienza veramente interessante che consiglio a chi abbia passione per il genere o per chi sia decisamente incuriosito dal cimentarsi con un vino Australiano di fascia alta. A mio modesto parere (ma forse anche secondo JS che nel 2020 lo ha posto al 4° gradino della sua classifica dei migliori 100) questo Syrah non sfigurerebbe se confrontato alla cieca con molti blasonati Hermitage del Rodano Settentrionale.

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